RASSEGNA STAMPA

IMMERSIONI D'ALTA QUOTA

RIVISTA DELLA MONTAGNA Ed. VIVALDA - TO
n. 285 – agosto settembre 2006
Articolo - Intervista di Franco Michieli

Un colossale crollo di seracchi e neve sulla Barre des Ecrins. L'uscita dalla neve di una dei sopravvissuti si trasforma in un grido d'amore per la montagna, tradotto in pittura stupefacente.

Guardando i quadri di Maria Grazia, capita di sentirsi coinvolti. Sono opere che riguardano l’essenza più profonda dell’alta montagna innevata e dei ghiacci, visti dall’interno. Prima di conoscere quei dipinti, avevamo incontrato l'autrice durante una serata sull'alpinismo, nelle colline di Parma. Ci aveva raccontato la sua esperienza di sopravvissuta a una valanga: e nel suo racconto, pur nel dolore acuto per gli amici scomparsi, c'era una sorta di rinascita, con uno straordinario atto di fede nella neve e nella montagna. (…)

Maria Grazia, maestra elementare per quarant'anni e ora in pensione, aveva cominciato un paio d'anni prima dell'incidente a dipingere con le amiche, copiando qualche soggetto classico, senza alcuna preparazione specifica. Cinque anni fa, dopo l'uscita dalla neve, ha trovato in sé i suoi soggetti e il suo energico, nuovissimo stile, mai appresi né studiati prima. Di colpo, è diventata una pittrice vera. Le impressioni suscitate dal primo incontro e dalle fotografie di alcuni suoi lavori rimangono indelebili. L'occasione per approfondire la dimensione che tanto mi attraeva è venuta con l'allestimento della mostra personale Alta Quota: Emozioni. Montagna arte interiorità presso la sede del Cai Milano, nel novembre 2005. Qui la Passini ha esposto una trentina dei suoi grandi quadri, qui abbiamo potuto ascoltare il suo racconto. Questa simpatica signora, appassionata di montagne, di scialpinismo e tuttora attiva in quota, è anche una nonna; dedita per gran parte della vita ai suoi scolari, sa raccontare addentrandosi nel ricordo, ricercando il dettaglio, la sfumatura, l'immagine precisa, con le pause necessarie perché sensazioni e sentimenti veri siano comunicati. E ritorna a quel giorno di pochi anni fa, a quella scialpinistica meravigliosa alla Barre des Ecrins, lo svettante "4000" dell'Alto Delfinato, dove la sua vita ha svoltato (i nomi dei protagonisti sono stati cambiati per il rispetto della privacy, n.d.r.).

«Eravamo stati in cima e scendevamo. Eravamo in quattro: Angelo, la guida; Marco, giovane ed esperto; Giovanni, un ventenne, per me un bambino; e io. È successo così: ormai eravamo in basso; a un certo punto Angelo, mio grande amico, uno che veramente amava la vita e voleva dar valore a ogni momento, ci propose di provare qualche curva ben fatta. Ci ha mostrato lo stile e si è fermato guardando in su, in attesa che ognuno di noi facesse lo stesso. Noi siamo scesi uno alla volta e ci siamo fermati davanti a lui, faccia a valle. All'improvviso un boato, un rombo incredibile. Il cielo si era rannuvolato: verso l'alto non si vedeva nulla. Perciò la guida, che era faccia a monte, scrutava in su; io vedevo i suoi occhi: forse a intuito, ci faceva segno con le mani di fuggire da una parte, poi dall'altra.

Poi… ho letto l'incredulità nei suoi occhi. Sai, quelle cose di un attimo: allora, tac, mi sono girata a guardare quello che aveva visto lui. Un'immagine fuori dal tempo: una nuvola di neve che cadeva come una cascata, che ci stava investendo. Ma ho visto anche, più in alto, alla mia sinistra, scendere scivolando la grande scia bianca del cuore della valanga. Stava cambiando direzione, deviata da roccioni, e si incanalava verso di noi. Era di un bianco madreperla luminosissimo. Il mio sguardo è stato rapito da quel nastro lucente e dall'eleganza delle sue curve. E ci è venuta addosso. Tutti questi eventi in pochi secondi. Siamo stati travolti. È arrivata prima la neve, polverosa, per cui ogni tanto si vedeva qualche sprazzo di luce, di celeste; mi sentivo "ali che sbattevano" in quella nuvola, che si è trasformata in pioggia-grandine-diluvio-uragano e quindi in finimondo. Dopo la nuvola, mi ha investito un vento furioso, e nello stesso tempo blocchi di ghiaccio o di sasso, non so, enormi; sentivo che mi urtavano, spingevano, superavano, passavano sopra, mi buttavano da una parte, dall'altra; mi sono sentita "foglia", completamente appiattita, tirata dal vento al massimo della mia lunghezza e larghezza, senza spessore e senza peso, abbandonata al soffio che vorticava in tutte le direzioni, anche opposte. Sul lato posteriore della "foglia" sentivo un cuscino che attutiva i colpi, lo zaino. È stato interminabile. La mia unica preoccupazione era per Giovanni. «Perché Angelo era della montagna, e Marco era esperto. Giovanni era il bambino. Avevo paura che si spaventasse. Non pensavo minimamente alla tragedia, o a danni per me, ma che lui avesse paura. Mentre il moto rallentava, mi sono resa conto che tutto sarebbe dipeso dalla mia posizione nel momento in cui fosse cessato quel quarantotto. Ci sono stati due o tre sussulti. Uno mi ha ribaltato in giù. L'ultimo mi ha buttato un po' fuori, con la faccia inclinata, metà all'aria e metà sotto; avevo liberi un piede e un braccio, così ho potuto pulirmi la bocca. Dopo il caos, tutto appariva assolutamente immobile; c'era un silenzio tombale, impressionante. Allora ho cominciato a urlare, aspettandomi le voci degli altri, finché ha urlato Marco. Gridavamo, poi ascoltavamo. Non si sentiva niente. Ancora eravamo sicuri che sarebbero venuti a soccorrerci. Invece niente. Abbiamo gridato aiuto insieme, inutilmente. Ero stremata. A poco a poco mi sono abbandonata. È stato quando ho sentito che non ce l'avrei fatta; che non arrivava nessuno. E intanto era cominciata la tormenta, e il mio corpo dava sussulti ingestibili; quando ho smesso di  lottare, spontaneamente, mi sono predisposta a salutare le persone più care, col cuore. Per me era l'atto finale. Proprio in quel momento ho sentito tutto l'affetto che mi legava alle mie figlie e ai miei nipoti. Sono divenuta affetto, ero affetto puro. È stata una cosa con esclusione di tutto il mondo, esisteva solo la dolcezza degli affetti più grandi. Ed era veramente una sensazione di liberazione totale». Il racconto continua, ma è necessaria una piccola pausa. Me l'ha detto sottovoce - è difficile da riportare - che in seguito le è rimasta nostalgia di quel sentimento, di quella dolcezza. Poi, è accaduto qualcosa: «Marco, a cui ormai non rispondevo più, ha gridato: "Mari, ti porto  via  io  di  qua!".  È riuscito a sganciare la piccozza, si è liberato, e tutt'a un tratto l'ho visto in piedi davanti a me. Ha preso la pala, mi ha liberato. Lui aveva un po' di forze, gli ho detto di andare avanti verso il rifugio; ma si voltava indietro a vedere se anch'io mi muovevo. Più giù ho avuto un attimo di incertezza. Mi sono girata per tornare dagli altri due. Perché il mio dolore era quello. Poi ho temuto che anche Marco ritornasse indietro per cercarmi, allora ho proseguito. Per caso, un'apertura nella nebbia ha rivelato a un uomo che era uscito dal rifugio a fare pipì - la sacra pipì! - la figura di Marco in lontananza, che vagava completamente fuori strada. Sono partiti i soccorsi».

Questo è il racconto di ciò che è accaduto. Il seguito è da ascoltare con ancora più attenzione. L'ispirazione pittorica di Maria Grazia è infatti il frutto di una comprensione più ampia, universale, del senso della montagna: «Successivamente, lavorando sulla mia interiorità, volontariamente, ho coltivato le sensazioni positive di quel giorno prima della disgrazia. Perché era stata bellissima quella gita; i ragazzi con cui ero erano persone meravigliose. Molte disposizioni interiori ci univano, e ce le aveva date la montagna. Perciò io sento l'impegno di portarli dentro di me, perché abbiamo avuto momenti di interiorità profonda comune. Ciò che circola fra di noi quando andiamo su, non è qualcosa di materiale, che comincia e finisce; è qualcosa che non finisce più, che ci portiamo dentro nelle nostre cellule, nel nostro cuore. È questo che desidero esprimere. Sento quindi l'impegno etico di far conoscere, attraverso le mie opere, le profonde sensazioni che la montagna dona a chi la ama in verità. Come la amavano loro».

Abbiamo parlato di una "porta interiore" che doveva essersi aperta; da questa devono essere usciti anche i quadri di Maria Grazia, la prova della veridicità delle sue parole. Così lei racconta la nascita artistica: «In precedenza avevo scopiazzato paesaggini, così, per gioco. Dall'incidente ho cominciato a buttar fuori neve e ghiaccio; ho sentito questo bisogno di tirar fuori quella neve che avevo dentro. E contemporaneamente ho cominciato questi lavori grandissimi; un'apertura, un'esplosione. All'inizio lavoravo su compensato, perché faceva resistenza alla mia forza; dipingere era proprio un urlo di forza che usciva. Poi sono passata alla tela. Sempre con i colori acrilici, abbondanti, e la spatola, strumenti che prima non avevo mai usato. Questa tecnica segue il ritmo della fuoriuscita dei miei sentimenti, rapida, immediata, con tempi ridottissimi; l'acrilico si asciuga subito e se non mi soddisfa ci vado sopra; la spatola risponde a una forza diretta, permette il colpo, il getto. Seguo la velocità della sensazione. E uso molta materia, mischiando colore, colla, sabbia, sassolini, perché la nostra sensazione reale della montagna è un vissuto di materia. Ogni volta che faccio un lavoro ci sono dentro». È proprio questo «sentirsi dentro» in vortici, onde, caverne, cascate, frammenti - tutti fatti di neve, di ghiaccio, di acqua, di nubi e di luci - che sprigiona il fascino magico dei dipinti: un guardare da dentro privo di qualsiasi accenno di claustrofobia; pieno invece di meravigliosi spazi che si dimostrano attraenti nonostante l'ipotetica violenza del loro vorticare: «Rievoco la mia sensazione di trovarmi in un involucro di ghiaccio; e dentro c'è la roccia, la morena, l'acqua; c'è la neve portata dal vento, la luce». Numerosi quadri danno la sensazione chiara dell'immersione sottomarina, sotto la banchisa di ghiaccio o dentro un fluido che avvolge interi gruppi montuosi glaciali, persi  nell'azzurro del fondale.  Ma ci sono anche soggetti rocciosi, aerei, vulcanici. Non è pittura figurativa: spesso rimanda in buona parte all'astratto; eppure si coglie immediatamente tanto la presenza della montagna quanto i sentimenti veri che là si provano. La bellezza e la veridicità di certe spatolate, di certe forme abbozzate eppure perfette nel richiamare visioni d'alta quota sono inspiegabili. «Non ho programmato niente, né ho studiato stili e tecniche» ribadisce Maria Grazia Passini. «A volte mi dicono: peccato, se tu avessi cominciato prima... No: prima non avrei mai potuto dipingere queste cose. Ora l'unica cosa in cui mi impegno è di mettere a tacere la mente; di entrare in me. In tutti questi quadri c'è un lavoro sull'interiorità; sono le mie sensazioni che coltivo, che scavo, che metto a nudo e che quindi escono; cerco di lasciarle andare direttamente dal cuore alla mano. Questo è il mio impegno più importante, stando attenta a fermarmi appena l'intelletto si intromette».

Alla fine resta il mistero. Meglio davvero mettere a tacere la mente, e sperimentare in altre direzioni. Vale il suggerimento di Madre Teresa di Calcutta che è divenuto titolo di uno dei quadri esposti: La vita è un gioco, giocalo! Ci chiediamo, e chiederemmo al 90 per cento dell'umanità, che ripone le proprie speranze nella pianificazione artificiale dell'esistenza: come si fa ad arrivare a esprimere un contenuto profondo artistico o spirituale, se non in seguito a qualche imprevisto, di quelli che a freddo cerchiamo sempre di fuggire? «È quello che mi chiedo anch'io» confessa Maria Grazia. «Sono tutt'ora stupita e meravigliata. A volte, dopo aver finito un lavoro, mi prende un timore sacro»

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